Oriana Fallaci passerà alla storia come una delle più importanti scrittrici italiane. Giornalista, inviata di guerra, ha scritto romanzi memorabili come “Un uomo” e “Lettera a un bambino mai nato”, per poi dedicarsi, negli ultimi anni, a scritti polemici come “La rabbia e l’orgoglio”.
Non tutti forse sanno che nel Giugno del 1966, pochi mesi prima che Walt Disney morisse, la Fallaci lo intervistò. Qui di seguito vi riportiamo il testo integrale uscito sul giornale L’ Europeo:
Accadde a Disneyland, tempo fa. Un bambino lo riconobbe, gli corse dietro e “Sei tu, vero, quello che disegna Mickey Mouse?”. “Oh, no, non lo disegno più da tanti anni” egli ammise. “Però sei tu che inventi i giochi e gli scherzi…” “Oh, no. Non faccio più neanche questo”. “Ma allora, signor Disney, che fai?”
Disney si grattò i baffi, si accucciò accanto al bambino, e rispose: “Vedi, ciascuno di noi assomiglia ad un animale. E l’animale a cui credo di assomigliare di più è l’ape. Io sono come un ape che vola di fiore in fiore cercando quel cibo che chiamano idee. E quando ho trovato le idee, le porto agli altri perché ci facciano il miele. Mi spiego?” “No”, disse il bambino, e se ne andò senza capire.
Se ne vanno quasi tutti senza capire. Il genio racchiude sempre un mistero, qualcosa di inafferrabile e Disney è un genio. Come definire altrimenti chi si è servito delle macchine della scienza e della tecnologia per reinventare la fiaba, restituirci all ’infanzia, all’ illusione, al sogno? Come definire altrimenti colui che cantò divertendoci, istruendoci, commuovendoci gli animali ed il vento, le montagne ed il fuoco, gli uomini ed il mare, la storia, la vita, e della fantasia fece una realtà?
Alcuni lo giudicano un uomo d’affari. E’ recargli offesa perché i soldi per lui sono il prezzo del sogno ed appena li incassa li spende per comprare altri sogni.
Altri lo chiamano artista, educatore od inventore o naturalista o filosofo. E’ fargli torto perché vuol dire limitarlo, incasellarlo allo stesso modo di quel bambino che gli attribuiva i disegni di Mickey Mouse e poi basta.
A lui non si devono solo i cartoni animati, i film sulla natura, il parco che ha nome Disneyland. Si deve…A proposito, sapevate che la monorotaia su cui corre l’elettrotreno di Disneyland venne ideata da lui e per anni fu l’unica al mondo e solo di recente i giapponesi ne hanno fatta una uguale per collegare l’aeroporto di Tokyo con la città? Sapevate che il razzo lunare di Disneyland fu creato da lui quando ad andar sulla Luna non ci pensava nessuno e Von Braun a vederlo arrossì?
Ieri sono stata a Disneyland. Sono entrata in quel razzo, sono sbarcata sulla Luna, poi sono tornata sulla Terra, sono andata nell’America di cento anni fa, con un tramvai tirato dai cavalli, ho bevuto in un saloon, ho giocato coi cercatori d’oro e ho mercanteggiato con gli indiani mentre le ballerine sgambettavano il can can. E poi ho raggiunto il Mississippi, sono salita sullo show boat di Mark Twain e ho navigato rasente la giungla dove c’era Tom Sawyer, gli elefanti che facevano il bagno, i coccodrilli che si azzannavano, gli scimpanzé che gridavano e le orchidee che cantavano davanti ad un tempio siamese. Sì, cantavano.
E poi ho preso il sottomarino Skipjack, sono scesa giù negli oceani, ho visto i coralli, ho visto le rovine di Atlantide ancora scosse dal terremoto, ho visto i tesori delle navi affondate, i pesci luminosi del Mare Glaciale e le sirene che mi dicevano ciao. Sì, le sirene. E poi sono tornata alla superficie e ho scelto il vascello di Peter Pan, ho volato con lui sul castello della Bella Addormentata nel Bosco, ho volato sui fiumi, sulle colline, sulle foreste, sulla montagna del Matterhorn che era tutta coperta di neve, e poi è successa una cosa fantastica. E’ successo che mi sono trovata a Washington nel Campidoglio, e qui c’era Lincoln. Ma non un attore vestito da Lincoln: Lincoln resuscitato, capisci? Se ne stava lì, fermo su una poltrona, e d’un tratto ha sbattuto le palpebre, ha sorriso, s’è alzato, s’è raschiato la gola, e s’è messo a parlare di libertà. Una donna ha gridato, impaurita. Io ho pianto, felice. Perché era il primo robot identico all’uomo, capisci, il primo umanoide che l’Uomo avesse inventato sostituendosi alla carne ed al sangue, la prima creatura di ferro e di plastica che mi dicesse qualcosa, che mi riportasse in vita qualcuno, capisci. Per secoli, per migliaia di anni l’uomo aveva sognato quel sogno, finalmente riuscendoci, grazie a Walt Disney, capisci? Si. Spero.
E allora capisci perché Ray Bradbury dica “Io credo che Disney sia la persona più rappresentativa della nostra epoca, io credo che l’influenza di Disney sarà avvertita per secoli”. Capisci perché l’inglese David Low dica: “Per me Disney è un nuovo Leonardo da Vinci” .
Capisci perché, a tutt’oggi, abbia ricevuto novecento premi, perché l’Università di Yale e la Harvard gli abbiano dato la laurea ad honorem, perché sette scuole in America siano intitolate a suo nome, perché Hitler lo odiasse e Roosevelt lo amasse, e Krusciov si arrabbiasse da pazzi quando gli negarono la tappa a Disneyland, e il re di Tailandia gli sussurrasse, incontrandolo: “sono così emozionato, maestà, voglio dire sir, così intimidito. Io sono cresciuto col suo Topolino.”
Capisci infine perché l’abbiano proposto, quest’anno, al premio Nobel per la Pace. Sicché eccomi qua, a sentire che ne pensa Walter Elias Disney, detto Walt Disney, nato il 5 dicembre 1901 a Chicago, figlio di un falegname ed autodidatta. Di studi fece solo le scuole elementari, crepando di sonno, perché ogni notte alle tre e mezzo si alzava e fino alle sette vendeva giornali. Ogni notte, dall’età di otto anni, per sei lunghi anni. E, durante la sua fanciullezza non seppe mai cosa significhi il verbo giocare, non possedette mai un balocco, un pallone. Ancora oggi, se gli buttate un pallone, lo afferra con incertezza. E il più delle volte gli scappa di mano.
MICKEY MOUSE GUIDO’ ANCHE LO SBARCO IN NORMANDIA
L’appuntamento è agli studios di Burbank dove ha sede la Walt Disney Productions e dove Walt Disney mi ha invitato a colazione per mezzogiorno. Da ogni parete, ogni foglio di carta da lettere, ogni scatola di fiammiferi, ogni posacenere, ammicca Topolino: Mickey Mouse in inglese, Micky Maus in tedesco, Raton Micki in spagnolo, Mikkii Mausu in giapponese, Mikki Hiiri in finlandese.
Certo, so che egli nacque nell’autunno del 1927, mi spiega solenne il publicity-man, mentre Walt e sua moglie tornavano a Hollywood sconfitti da un viaggio a New York dove i cartoni animati non li voleva nessuno.
“Tenterò una serie su un topo” disse Walt alla moglie, “e lo chiamerò Mortimer Mouse”. “Mortimer è troppo dignitoso. Perché non lo chiami Mickey?” rispose la moglie. E lui: “Vada per Mickey”.
L’anno dopo, il trionfo, spiega sempre più solenne il publicity-man. Certo, so che l’Enciclopedia Britannica gli dedicò un intero capitolo, che Madame Tussaud lo accolse nel suo museo delle statue di cera, che i russi lo interpretarono come simbolo del proletariato, e potrei indovinare la parola codice che il 6 giugno 1944 guidò lo sbarco in Normandia? No, non potrei indovinarla. “Mickey Mouse! La Francia, l’Europa, vennero liberate nel nome di Mickey Mouse”.
Il publicity-man non si regge in piedi, ha settantaquattro anni. In America è raro che una ditta continui a tenere un vecchio così vecchio, ma se lo licenziassero o lo mandassero finalmente in pensione, lui ne morirebbe: quindi Walt non lo licenzia e non lo manda in pensione. Walt è un brav’uomo. Da quando esistono gli studios ha licenziato una sola persona: quel tale che insultò Topolino con una parola di cinque lettere. Tutti lo chiamano Walt, mai signor Disney, e la maggior parte dei suoi dipendenti sono qui da vent’anni, trent’anni, quaranta.
Walt è un brav’uomo. Lo ripetono fino alla nausea, fino al sospetto: sono qui da due giorni e non ho ancora trovato qualcuno che ne parlasse un po’ male. Al massimo possono dirti che, a volte, è nervoso. Ma il ritratto che esce dai loro discorsi è il ritratto di un giusto che lavora dall’alba a notte inoltrata, non prende mai una vacanza, è fedele alla moglie a cui è sposato da ben quarant’anni, ama le figlie ed i nipoti di tenero amore. Le figlie, Diane e Sharon, una nata dal matrimonio ed una adottata, sono sposate ad un produttore e ad un direttore artistico della ditta: l’armonia familiare è perfetta.
LA SOCIETA’ PER AZIONI DEI FRATELLI GRIMM AMERICANI
Una prova? La Disney Productions non include estranei. Walt e la moglie posseggono il sedici per cento del capitale, le figlie, i nipoti e i generi hanno il trentotto per cento, il rimanente è diviso tra il fratello Roy, la moglie di Roy, i figli di Roy. Quanto a Roy è qualcosa di più di un fratello, è un socio, un consigliere, un banchiere, un’ombra senza la quale Walt non muove un passo. Stanno insieme fin dall’inizio, come i fratelli Grimm, e solo la morte potrà separarli. “Senza andare in chiesa, senza pregare, infatti non è religioso e non lo è mai stato, Walt meriterebbe d’esser portato ad esempio dai pulpiti” ha detto qualcuno. Perbacco, mi sento nervosa. Un genio è già scomodo, figuriamoci un santo. Senza contare che non c’è bisogno di essere il re di Tailandia per dire “crebbi con Topolino”. Avevo tre anni quando la mamma me lo ricamò sul vestito, sei quando conobbi i Tre Porcellini. E con loro andai a scuola. A scuola cantavano “holalaiuuù, holalaiùù”, il ritornello di Biancaneve, e il mio primo disegno fu Pluto. Persi “Pinocchio” perché Hitler invase la Polonia il giorno in cui “Pinocchio” fu presentato a New York, e per molti anni il film mancò dal mercato europeo. Finita la guerra, però, ritrovai in “Cenerentola” la mia infanzia interrotta e scoprii Bach a veder “Fantasia”. C’è di che provar timidezza mentre mi viene incontro: un bel sessantacinquenne alto e grosso, spalle larghe, giacca sportiva, cravatta allentata, che cammina a gran passi puntandoti addosso due occhi maliziosi, distratti. E in fondo ai quali luccica, zitta, una goccia di malinconia.
“GLI INTELLETTUALI DOVREMMO CONFINARLI NELLA GIUNGLA”
L’uomo è di una semplicità disarmante. Appena vista ti tratta come se ti conoscesse da sempre o tu fossi una sua figliola, ma denutrita. “Cosa vuol mangiare, mi dica. Una cotoletta d’agnello? Gliela consiglio con l’insalatina di cavolo. E’ buona, mi creda. Già, è venerdì, voi italiani ci fate attenzione. Una sogliola fritta va meglio? Macché sogliola fritta, lasci perdere il venerdì e si mangi la cotoletta. Per cominciare, una minestrina, d’accordo?”.
Chiama il cameriere. Gli ordina il pasto, neanche fosse il tuo primo pasto dopo un digiuno crudele. Ti sorride. Ti coccola. Ti seduce con tutto se stesso: quei capelli d’argento che scolorano nel bianco, quei baffi ispidi e un po’ charlottiani, quelle rughe fitte che gli appesantiscono le palpebre. Assomiglia a qualcuno che conosci bene, ma chi? I suoi denti son lunghi, le sue orecchie son ritte. La sua voce è sonora e si rompe in stecche. Assomiglia alla voce di qualcuno che conosci bene: ma chi? Forse qualcuno che non sa mentire e può permettersi un simile lusso.
“L’hanno proposta al premio Nobel per la Pace” , gli dico.
“Me”?
“Si, lei”
“ E cosa ho fatto per la pace, io? Non sono uno di quelli che dicono: le guerre finiranno nel mondo. Al contrario, sono convinto che, fino a quando il pianeta sarà popolato, le guerre esisteranno. Perché fanno parte della vita, sono esse stesse la vita. Bando alle utopie, cara mia. Ma come si può evitare le guerre con tutte queste ideologie, queste religioni, che non vanno e non possono andare d’accordo? Ciascuno la pensa diversamente, e chiunque la pensi in un certo modo vuol far trionfare il suo punto di vista: è normale ed anche giusto. Ma se, avendo un punto di vista, non vuoi essere conquistato da chi ha un altro punto di vista, come ti difendi, se non facendo la guerra? Quindi, che significa pace? Deporre le armi per evitar guai? Rinunciare a difenderti se uno ti attacca, rinunciare a proteggerti, ad essere pronto? Dormire? Hitler non avrebbe mai conquistato l’Europa e ucciso milioni di creature innocenti se il mondo fosse stato sveglio coi fucili puntati. Ma il mondo aveva abbassato i fucili, dormiva sognando le utopie sulla pace, e il male venne, Hitler venne, si dovette fare la guerra per estirparlo. Se il gregge è lasciato senza pastore, mia cara, la volpe entra nel gregge e lo mangia; fare i pacifici è contro natura. Guarda gli animali, sono sempre in guardia, non si sentono mai sicuri; sanno bene che non bisogna fidarsi, che il mondo è pieno di creditori a cui bisogna fare la guerra. Sono gli umani, coi loro pensieri idealistici, il loro intellettualismo, che vogliono credere in certe sciocchezze, che senza armi sei salvo e sicuro. Ah, io non posso soffrire gli intellettuali. Sono pericolosi; perché vivono fuori dalla natura o non ne tengono conto. Io, tutte le volte che parlo con un intellettuale, sento il bisogno irresistibile di scaraventarlo in mezzo alla giungla, o almeno dentro ad uno zoo, perché veda com’è fatta la vita e si tolga dal capo le sue stupide ideologie, i suoi ipocriti discorsi sulla pace”.
Il vecchio publicity-man si sente morire. Tossisce, si agita, lo supplica invano con pupille acquose. Walt, sembra dire, sii diplomatico, Walt. Ma lui continua, tranquillo, mangiando tranquillo la sua cotoletta.
“Gli animali io li conosco. Quando finì la guerra e la gente ne ebbe abbastanza dei cartoni animati, presi a fare quei film sugli animali e la maggior parte del tempo la passavo con loro. C’è tanto da imparare dagli animali. Non hanno ciò che noi chiamiamo intelletto ma son tanto più intelligenti di noi: il loro istinto vale tutte le lauree delle università. Guardi ad esempio come si difendono bene nell’organizzazione familiare, senza disporre di pillole per il controllo delle nascite. Un umano è fertile in ogni momento dell’anno e pronto a procreare di nuovo dopo i nove mesi di gravidanza. Un animale è fertile pochissime volte in un anno e, messo al mondo un figlio, non fa subito un altro figlio; aspetta che il figlio abbia imparato a mangiare e camminare o volare o nuotare, affrontare la vita, insomma. Non che io voglia idealizzare la natura, intendiamoci. Sono troppo lucido per non rendermi conto che anche tra gli animali esistono mascalzoni che uccidono per il gusto di uccidere, come gli umani. Ma la maggior parte degli animali non uccide per il gusto di uccidere, uccide per procurarsi il cibo. E quando hanno mangiato, sono sazi, non uccidono fino al momento in cui hanno fame di nuovo. Il che è meglio che uccidere in nome delle ideologie, delle religioni e via dicendo, le pare? O meglio, che fingere per avere un premio Nobel, le pare?”
I NONNI DI TOPOLINO E MINNIE SONO ESOPO E LA FONTAINE
Ora il publicity-man annaspa, stroncato dall’impotenza. Walt invece attacca, tutto contento, la sua insalatina di cavolo. Stoccolma è talmente lontana. Fa freddo a Stoccolma, e qui c’è il sole.
“A me piacciono gli animali. Le persone più affascinanti che ho conosciuto erano animali. Guardate loro e capirete voi stessi: Esopo e La Fontaine lo sapevano bene e coi cartoni animati io non ho fatto che ripetere la lezione di Esopo e di La Fontaine. Gli umani sono soltanto animali che vanno all’università e quando piove aprono l’ombrello. Perfino la loro mancanza di gratitudine è identica. Gli animali non conoscono la gratitudine. Un giorno, Alfred ed Elma Milotte, due dei miei operatori naturalisti, andarono in Africa a farmi un film. In mezzo ad un fiume sorpresero un rinoceronte preso nel vortice della corrente. Si dibatteva, disperato, e tutte le creature della giungla stavano ferme a guardarlo: uccelli, antilopi, leoni. Quasi divertite. Un elefante, ad un certo punto, si mosse e se ne andò, sbadigliando. Alfred ed Elma, invece, vollero salvare il rinoceronte. Fecero un laccio con una corda, glielo gettarono intorno al collo e lo tirarono a riva. Beh, appena in salvo, lui tentò di caricarli. E tuttavia, se un intruso della specie umana entrasse nella mia casa, io non esiterei a sparargli: se un rinoceronte entrasse nella mia casa, ci penserei due volte prima di sparargli. Non sono mai andato a caccia, raramente vado a pescare e se piglio il pesce, lo ributto nell’acqua. Con ciò non dico che la gente non debba andare a caccia o a pescare: le cotolette mi piacciono ed anche la sogliola fritta. Se non è venerdì…Dico solo che io non ci vado: sa qual è il sogno che mi tormenta la notte? Una civetta che uccisi quando ero ragazzo. Così, senza ragione. Forse per vedere che effetto faceva ucciderla. Vedo ancora quegli occhi rotondi che mi fissano, gonfi di dolore, sorpresa, rimprovero: e mi sveglio sudando. Se invece sogno di far fuori un umano, non mi sveglio per niente: continuo beato a dormire”
UN MANDARINO CINESE INZUPPATO DI SCIROPPO
“Non riesce a mentire, vero, signor Disney?”
“Mia cara, i giorni che spendiamo su questa terra sono un’orma leggera sulla sabbia del tempo, e non merita sprecarli in menzogne. Una fetta di dolce, mia cara? Un gelato? Ne abbiamo di bellissimi, qui. Gelati al pistacchio, alla mandorla, ai tutti-frutti. E torte alla panna, alla fragola, alla cioccolata. O preferirebbe un mandarino cinese inzuppato nello sciroppo?”.
Chiama il cameriere, gli ordina il mandarino cinese e ci si butta come una tigre su una gazzella. Non ho mai visto un uomo mangiare con gioia più pura, infantile. Deve aver fatto tanta fame, quel Walt. Deve aver sognato tante torte alla panna, tanti gelati al pistacchio, quand’era bambino e vendeva giornali di notte e imparava a disprezzare gli umani, a fregarsene del venerdì. E sai cosa? Anche mentre mangia, assomiglia a qualcuno che conosci bene. Qualcuno…ho trovato. Qualcuno che, al di là dell’amarezza, sa apprezzare la vita, non indulge mai a compromessi, ed è coraggioso e pieno di buon senso: Mickey Mouse. E, a un tratto, mi torna alla mente una frase di Roy, suo fratello: “Ma Walt “è” Mickey Mouse. Quel topo è il suo autoritratto”.
DISNEYLAND E’ NATA PER DIVERTIRE I GRANDI
L’uomo è di una complessità sconcertante. Nello stesso momento in cui credi d’aver scoperto qual è il suo segreto, la chiave del genio, ti sguscia di mano e diventa un’altra persona. Via le torte alla panna, Mickey Mouse, gli animali, ti trovi dinanzi una specie di dottor Frankenstein che traduce in teoria perfino l’istinto. Ascoltiamolo mentre, usciti dal ristorante, ci rechiamo col povero vecchio al suo ufficio. Gli ho appena detto d’essere stata a Disneyland.
“S’è divertita?”
“Pazzamente. Ma non è un posto per i bambini, è un posto pei grandi. Infatti, ogni dieci bambini ce n’erano cento grandi.”
“Non ho mai detto che fosse un posto per i bambini: sa com’è nato. Come ogni padre, portavo le figlie al parco e mi annoiavo fino allo spasimo; per loro c’erano un mucchio di cose da fare, per me proprio nulla. Cominciai a dirmi, accidenti, perché non invento un parco dove anche i grandi possano divertirsi insieme ai bambini? E lo inventai. Il punto era tradurre i cartoni animati in fiaba vivente, portare la fiaba all’estrema tangibilità, trasformare il sogno in qualcosa che non solo si vede ma anche si tocca. Oltre il cinema, oltre il teatro. Il cinema non basta più a dar l’illusione perché bidimensionale; si svolge su qualcosa di piatto. Il teatro è tridimensionale ma ha lo stesso difetto del cinema: lo guardi da lontano, senza prendere parte allo spettacolo. Bisognava dunque trascinare la gente nello spettacolo, nell’illusione: renderla protagonista della fiaba insieme alla fiaba. Volare come Peter Pan sul castello della Bella Addormentata nel Bosco. Impaurirsi come gli esploratori incontrando scimpanzé ed elefanti. Scendere fisicamente negli abissi del mare e non guardare un altro che ci scende. Non servirsi soltanto della fantasia altrui, per divertirsi, ma usare la propria. “
IL PROGETTO DI UN SOGNO A TRE DIMENSIONI
“C’è riuscito. Basta fare uno sforzo di immaginazione e ci si diverte. Ma lei ci si diverte? “
“Ci vado qualche volta, non molto. E’ difficile divertirsi con qualcosa che si è inventata: nessuna persona di buon senso ride ai propri scherzi. Io mi diverto meglio a pensarle, le cose; dopo averle tradotte in realtà mi angoscio e basta, nella preoccupazione che gli altri non si divertano. Come quando assisto alla prima di un film, per studiare le reazioni del pubblico. Ho le farfalle nello stomaco, mi sento male, sudo in attesa dell’altrui risata. Oddio, perché non ridono, dico, perché non piangono? E se uno si alza per andare al gabinetto, lo seguo per controllare che vada davvero al gabinetto. E aspetto che esca dal gabinetto per accertarmi che rientri in sala. E di regola non presento mai un film la mattina, perché la mattina la gente va di più al gabinetto. Dunque, dicevo che disegnai quel progetto del sogno tridimensionale. Disegnavo di notte e l’alba mi coglieva sfinito, con la testa e le dita che mi facevano male. Poi, quando il progetto fu pronto, nessuno volle finanziarlo: dovetti vendere perfino la mia assicurazione sulla vita per comprare quei centosettanta acri di terra ad Anaheim, vicino a Los Angeles. Dovetti usare tutti i soldi che avevo per costruire gli edifici, le strade, piantare la foresta, scavare il letto del fiume, la grande vasca che simula il mare, la monorotaia, l’intera città. E di cosa mi accorsi, una volta finito? Mi accorsi che non era finito per niente, che avrei dovuto continuare per sempre ad abbattere, ricostruire, inventar cose nuove: perché la fantasia non può essere cristallizzata e il sogno è movimento perenne. Prendiamo il sistema audioanimatronico…”
“Il…cosa?”
“Audioanimatronico. Vuol dire animazione col suono, guidata elettronicamente e consiste nel prendere un oggetto inanimato, poi farlo muovere, parlare, vivere. Come gli elefanti, i coccodrilli, gli indiani di Disneyland. Beh, incominciò in modo assai elementare: con un motore alla congiuntura degli arti ed un fonografo a batteria. Per gli uccelli ed i fiori invece divenne più complicato: presi ad usare lo stesso tipo di controlli e valvole che usano per i razzi e le astronavi. Per Abram Lincoln è addirittura complicatissimo: tutto viene inciso su nastro, suoni, movimenti, effetti di luce e comunicato all’oggetto attraverso impulsi radio. Ci ho messo undici anni a costruire Lincoln… e alcuni milioni di dollari. La statua di per sé non presentava problemi: il materiale usato, una specie di plastica che chiamano “duraflex”, ha la stessa consistenza della pelle umana ed è ugualmente flessibile. Gli occhi sono quelli che usano gli oculisti per i ciechi, i denti sono una normale dentiera. Il difficile era ottenere movimenti accuratissimi, soprattutto nei muscoli facciali, le labbra, la lingua, gli occhi. Scoprii che era vicino alla perfezione quando una signora sorda mi disse: ho capito quello che diceva guardandogli la bocca. Il mio Lincoln è capace di quarantotto movimenti del corpo, diciassette movimenti della testa e, teoricamente, è possibile ottenere da lui 275mila combinazioni di gesti. Però ha un torto: è capace solo di mettersi a sedere ed alzarsi, non cammina. Voglio che cammini. E voglio costruirne altri che camminino, parlino, agiscano, ci raccontino il passato per insegnarci il futuro. Voglio Jefferson, voglio Washington, voglio Platone, Aristotele, Omero, Dante, Galileo: siamo appena nell’infanzia delle macchine e di noi stessi, se riuscirò a mettere insieme tanti umanoidi simili a loro…trova che sia una pazzia?”
“No, non lo è.”
Ieri sono stata anche a Glendale, dov’è la fabbrica dei suoi robot, la WED Enterprises. La fondò nel 1952, assumendo decine e decine di ingegneri, architetti, fisici, chimici, specialisti elettronici a cui comunicare i suoi sogni e farli divenire realtà. Uomini e donne in camice bianco lavoravano come chirurghi a file di braccia e gambe, di teste che un giorno sarebbero state creature; e l’intera faccenda aveva qualcosa di blasfemo ma allo stesso tempo di eroico.
In un angolo c’erano tre scheletri veri. Walt li compra a Calcutta e Ceylon, per plasmarci su gli umanoidi. Lì per lì m’ha dato fastidio: quei poveri morti appesi per il collo anziché riposare sottoterra. Ma poi ho pensato: “che bello se i nostri scheletri servissero sempre a resuscitare qualcuno, in una illusione di vita. Se vorrà il mio, quando è pronto, io glielo do”.
GLI ADULTI ONESTI RIMANGONO BAMBINI
L’uomo è di una speranza esaltante. Son passati pochi minuti dacché decidesti che ti fa paura con i suoi meccanismi alla Von Braun, le sue filosofie alla Bergson, e già ascolti beato i discorsi che va facendo sul bene: lo ritrovi fanciullo. Quest’ ultima parte del suo monologare avviene nell’ufficio al quale si accede per una stanza ingombra di premi: centinaia di statuette, coppe, targhe, medaglie, Oscar posati qua e là dove capita, sugli armadi, sugli scaffali, sui tavoli. Per sé non ne tiene che uno, accanto alle fotografie dei nipoti. L’Oscar che ebbe nel 1928, quando ancora disegnava da sé .
“Smettere fu un gran sollievo; disegnare non mi piaceva molto e poi non ero neanche tanto bravo. Quelli ai quali ho insegnato il mio stile disegnano assai meglio di me. Non mi interessava la matita in mano, essa fu solo il mezzo per incominciare ogni cosa: a me interessava cercare il bambino che è dentro ciascuno di noi. Come Disneyland, Mickey Mouse non fu mai concepito per una mente infantile: fu sempre un discorso a coloro che io chiamo gli onesti adulti, cioè quelli che non si vergognano ad essere sostanzialmente bambini. Perché a quale età si smette d’essere bambini? A sei anni, a diciotto, a trenta, a sessanta? Se si è onesti, a nessuna: la curiosità, l’entusiasmo, la voglia di piangere e ridere sono virtù dei bambini. Un adulto incapace d’essere bambino non può trarre piacere dalla vita. Ma guardi quei sofisticati, quei superintellettuali che voglio mandare allo zoo: che gusto hanno a vivere? Non si meravigliano di nulla, non si divertono con nulla, sono sempre annoiati, noiosi. Li preoccupa solo il giudizio degli altri e non stanno mai comodi. La loro è una vita da vecchi, una vita che è una frangia della vita. A meno che non abbiano una doppia esistenza e, di nascosto, quando fanno pipì, non leggano Mickey Mouse. Lo diceva anche Charlie.”
“Charlie chi?”
“Charlie Chaplin, quale Charlie dovrebbe essere? Lavoravo per Charlie, all’inizio: dirigeva la United Artists con Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Ascoltavo sempre i suoi consigli, perché era il mio idolo, il mio protettore, e Charlie diceva: “ricordati, Walt, che bisogna guardare ai bambini come a possibili adulti, agli adulti come a possibili bambini, e far discorsi chiari per l’intelligenza di entrambi. Farli ridere, poi riposare. Piangere, poi riposare”. I greci lo chiamavano pathos. Sicché, se mi domanda chi mi abbia influenzato di più, io le rispondo Charlie. Pensavo a Charlot, a quell’omino buffo, coraggioso, indifeso, quando disegnai Mickey Mouse. Come Charlot, Mickey Mouse non fa mai carognate e ti dona sempre speranza: le sue storie hanno un lieto fine. I sofisticati, i superintellettuali mi rimproverano il lieto fine. Non è realista, sghignazzano. No, non lo è. La realtà è sudicia, il più delle volte, e il sudicio è ovunque, basta cercarlo, anzi lo trovi anche senza cercarlo. Ma io non voglio cercare, non lo voglio nemmeno trovare. Voglio credere, e credo, che dopo una tempesta venga l’arcobaleno: che la tempesta sia il prezzo dell’arcobaleno. La gente ha bisogno dell’arcobaleno e ne ho bisogno anch’io, e perciò glielo do. Che sia o non sia una illusione. E gli do un parco dove i fiori cantano e i leoni non mangiano nessuno. E gli do Cenerentola che sposa il Principe Azzurro e i due vivono felici e contenti. E gli do l’oceano con le sirene e cosa m’importa se è solo una gora d’acqua profonda pochissimi metri. E gli do Lincoln che parla di libertà e cosa m’importa se è solo un pupazzo plasmato col duraflex. E gli do film come Mary Poppins che è una brava ragazza e canta coi bambini. E più m’accorgo che gli uomini meritano poco, sono solo animali con meno saggezza degli animali, più li tratto come se meritassero molto. La pace inclusa.”
Il vecchio publicity man ha ripreso colore e le pupille acquose gli brillano gaie, neanche gli avessero detto che ha appena compiuto venti anni e il domani è suo.
“Certo che sono ottimista! Un ottimista abbastanza pratico da sapere che il progresso consiste in due passi avanti e un passo indietro: e quel passo indietro non nega che il progresso esista. Perché il bene esiste, si esiste! V’è tanto male nel mondo, un male inevitabile, spesso necessario, ma v’è anche tanto bene. A me, tutto ciò che è successo, è successo a fin di bene: mi disperavo, ad esempio, perché avevo avuto due figlie e nessun figlio, ma ecco che le figlie si sposano e mi danno due generi che sono due figli, bravi, perbene. Mi disperavo perché, con l’avvento del suono, i cartoni animati non li voleva nessuno ed ecco che applico il suono ed il mondo si innamora dei cartoni animati. Mi disperavo perché, dopo la guerra, i cartoni animati non interessavano più, ho avuto brutti momenti, che crede, brutti momenti, ed ecco che faccio i film di animali e la gente impazzisce per gli animali. Quelli che danno i premi per la Pace guardano al bene come a qualcosa di eccezionale, di raro; io no, perché sono convinto che il bene sia alla base di tutto. Se non ce ne accorgiamo è perché il male è pubblicizzato, chi violenta una ragazza o picchia la mamma è sempre sul giornale, chi salva la ragazza e rispetta la mamma non è mai sul giornale: il buon samaritano non fa mai notizia. Ma i buoni samaritani ci sono e, grazie a loro, il mondo migliora: non è già meglio di cinquecento o cinquemila anni fa? Gli uomini non sono forse più liberi, più dignitosi di quanto lo fossero cinquecento o cinquemila anni fa? Io ho fiducia nel futuro. E non mi spaventa per niente la polvere da sparo, usiamo la nitroglicerina, e la bomba e i missili, e tutto ciò che serve a muoverci, cambiare, andare dove ci riesce, dove ci portano i sogni, le illusioni, le fiabe! L’importante è non invecchiare, non…”
“E quando Walt Disney non ci sarà più, signor Disney?”
“Me lo chiedo sempre e mi rispondo che ho ancora tutto ciò che avevo quando sono venuto al mondo, eccetto le tonsille. Quindi durerò ancora un poco. Bisogna, cara mia, bisogna: ho tante cosette da fare. Devo costruire anche due città: ho già comprato il terreno. Una città invernale sulle montagne della Foresta Nazionale di Sequoia, a mezza strada tra San Francisco e Los Angeles, a me piace sciare, a lei piace sciare? E una città estiva, vicino a Orlando, in Florida. Questa si chiamerà Disneyland e senta che idea: la divido in due parti. Da una parte ci piazzo “Oggi” , da una parte ci piazzo “Domani” e…
DATEGLI IL NOBEL ANCHE SE NON LO VUOLE
Signori di Stoccolma, austeri signori che non avete mai udito un fiore che canta, non avete mai volato come Peter Pan, non avete mai visto una sirena, non avete mai pianto dinanzi ad un robot, non avete mai riso coi Tre Porcellini, non avete mai usato uno scheletro a fin di bene, signori di Stoccolma che deste il Nobel per la pace a Giuseppe Stalin: datelo a lui questa volta. A Walter Elias Disney, abitante a Los Angeles, USA. Anche se lui non lo vuole. Anche se dopo ci fa una barchetta e ci gioca nella vasca da bagno, scotendo la testa. E, negli occhi maliziosi, distratti, una goccia zitta di malinconia.
Oriana Fallaci